Ormai quasi quarant’anni fa osavo sostenere «che la teologia, fra tutte le scritture, è quella che dà senz’altro il piacere più grande».
I frequenti riferimenti della memoria ecclesiale testimoniano il rilievo dello scolopio Ernesto Balducci (1922-1992) nella vicenda dell’Italia postconciliare.
Per motivi biografici (sono una donna credente) e per motivi intellettuali e ministeriali (sono una teologa con un particolare interesse per l’ecclesiologia), da molti anni mi occupo della questione femminile nella Chiesa, dovendo ormai riconoscere che fare questo tipo di lavoro è disorientante.
Nell’intervista rilasciata all’Associated press (AP) il 24 gennaio scorso papa Francesco è ritornato sul tema delle dimissioni dal ministero petrino. Lo aveva già affrontato in precedenti occasioni, nelle quali aveva smentito l’intenzione di rinunciare all’ufficio papale, senza escludere però la possibilità di future dimissioni.
Capita raramente che nello stesso libro s’intreccino le vicende e i ricordi personali con la critica letteraria e artistica, la teologia con la filosofia, la Bibbia con la storia civile: e il tutto con un’accuratezza, una documentazione e una scorrevolezza eccezionali. Leggendo questo Trittico delle cose ultime dell’architetto Giorgio Gualdrini, ho pensato più volte al genere letterario dello Zibaldone; genere che, a dispetto del senso peggiorativo assunto dal termine, indica leopardianamente una raccolta densa di pensieri fondati, suggestivi e stimolanti; oggi si direbbe un brainstorming.
Nonostante le preoccupazioni espresse dagli osservatori internazionali per le incerte condizioni di sicurezza nella zona, la sera del 14 gennaio 2012 sul palco del Festival au désert, uno dei più importanti eventi musicali dell’Africa organizzato a partire dal 2000 nei dintorni di Timbuctù in Mali, si stanno esibendo i Tinariwen, rock-band tuareg la cui fama ha ormai da decenni superato i confini del continente africano.
Tra le varie novità che, all’inizio del pontificato di Francesco, hanno colpito gli osservatori vi è stato anche il richiamo al valore esemplare attribuito alla figura di Pietro Favre. Si tratta infatti di un personaggio poco conosciuto. Nato a Villaret in Savoia nel 1506, si reca per gli studi a Parigi. Qui condivide la stanza, al Collège Saint-Barbe, con Ignazio di Loyola e Francesco Saverio, diventando membro del gruppetto che è all’origine della Compagnia di Gesù. Con la morte a Roma nel 1546, il suo ricordo si eclissa dalla comunità ecclesiale.
Il secolo XIX è centrale per comprendere quello che l’autrice chiama «il destino antimoderno» del cattolicesimo. Gli ultimi 200 anni rappresentano una serie di tentativi di risposta contro la moderna laicità e lo stato laico: da Donoso Cortes al teologo statunitense William Cavanaugh (che è diventato un punto di riferimento per teologi di tendenza «radical orthodoxy», anche in Francia e in Italia). Il momento rivelatore è quello politicista reazionario di Maurras, negli anni Venti del secolo XX, per comprendere poi il tentativo di Mounier e Maritain di adattarsi alla modernità e salvare l’essenziale del cristianesimo: un tentativo che il libro definisce fallito.