b
Blog

Nella dimensione del Risorto

II domenica di Pasqua
(o della divina misericordia)

At 4,32-37; Salmo 117 (118); 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

         Nel Vangelo di questa domenica si narra l’episodio in cui il Risorto si fa vedere ai suoi discepoli. Prima di tutto bisogna chiarire un aspetto: il fatto che siano «discepoli» non esclude che in mezzo a loro ci siano anche delle «discepole», dato che il plurale maschile indica un gruppo in generale.

         Tommaso non è presente, quindi di per sé non riceve lo Spirito e neanche il mandato di perdonare i peccati; particolare interessante se pensiamo che anche lui fa parte degli «undici apostoli». Proprio perché era assente, Tommaso protesta, non tanto riguardo al mandato o allo Spirito, ma riguardo all’affermazione che muove il tutto e che è alla base di tutto: «Abbiamo visto il Signore!». «Ho visto il Signore!» era quanto annunciato da Maria di Magdala, e ora anche gli altri discepoli e discepole possono dire lo stesso; ma Tommaso no, lui non c’era!

         La situazione che si viene a creare non deve essere stata delle più facili; Tommaso sta mettendo in discussione quanto gli altri affermano e, a quanto pare, tra loro non c’è abbastanza fiducia e credibilità. Anche se questo aspetto può avere la sua verità, ovvero il fatto che la testimonianza degli altri non è così convincente, rimane la richiesta, ma anche il desiderio, di Tommaso: vedere il Signore.

         Così, otto giorni dopo, il Signore si rende ancora visibile ai suoi e questa volta anche Tommaso può vederlo, anzi viene invitato dal Risorto addirittura a toccare le ferite inflitte al suo corpo dalla crocifissione: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco».

         È importante questo particolare «delle mani» e del «fianco», perché è il segno e la riprova di una continuità: il corpo del Risorto è lo stesso del Gesù che i discepoli avevano conosciuto «in carne e ossa», non è dunque né un fantasma né un’anima «eterea».

         Ciò che Tommaso vede, come gli altri discepoli/e precedentemente hanno visto, è qualcuno di veramente reale e la cui realtà permane al di là del visibile e tangibile nei segni storici della sua esistenza terrena. Identità, continuità e alterità sono dunque le caratteristiche che Tommaso sperimenta nell’incontro con il Risorto e che lo portano a credere: «Mio Signore e mio Dio!».

         Ultimo particolare: il testo non dice che Tommaso abbia poi toccato le ferite di Gesù così come era sua intenzione: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo»; molto probabilmente non ne ha avuto non il coraggio, ma il bisogno. C’è una dimensione del vedere, che tutti i racconti evangelici delle manifestazioni del Risorto insegnano, che va oltre il tangibile e avviene in una dimensione che è «altra» da quella spazio-temporale: una dimensione unicamente «relazionale», che apre a una conoscenza che non si può tradurre in «dati», in «definizioni» o formule.

         La risposta che Gesù dà a Tommaso, il cui percorso è proprio quello dal «vedere spazio-temporale» al «vedere relazionale», è proprio su questa linea: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

         «Vedere il Risorto», ieri come oggi, non solo è possibile, ma assolutamente necessario per essere suoi discepoli/e. È solo una tale «visione» ciò che permette, alimenta e rende autentica la fede; una visione che si può sperimentare solo nell’amore. Bene lo descrive l’autore della Lettera agli Efesini: «Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nell’amore, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19).

         La beatitudine di coloro che credono pur non avendo visto, come Tommaso e gli altri, è proprio questa: la gioia profonda e intensa dell’esperienza di un «incontro» che apre a una conoscenza e a una visione che è sempre «altra».

         Il «credere» altro non è che il frutto di questa visione, una visione capace di profondità, di stupore, di apertura, di novità e soprattutto di amore. A volte, di fronte a chi oggi si erige come paladino della fede, difensore della «dottrina», attento a scrutare e rimarcare ogni dettaglio «storto» – che si tratti di un paramento, di un rituale o di un «codicillo» canonico – verrebbe da chiedersi se ha mai «visto» il Risorto.

Lascia un commento

{{resultMessage}}